Expert talk con Paolo Mauri: Servitizzazione ed AI - il futuro del customer care

Servitizzazione, IoT e AI: la nuova ricetta del customer care nel settore HoReCa

Sara Strizzolo
03 Dicembre 2025
Nel nuovo episodio di Expert Talk, il podcast di Things 5 dedicato alla tecnologia e ai prodotti intelligenti, incontriamo Paolo Mauri, Global Customer Care Manager di Angelo Po. Partendo dal suo percorso da sociologo dell’organizzazione fino ai ruoli manageriali nel settore industriale, Paolo ci accompagna dentro le sfide concrete del mondo HoReCa: la carenza di tecnici, la necessità di trasferire il know-how, il ruolo dell’IoT e dei dati nell’evoluzione dei servizi a supporto del cliente.
Dalla servitizzazione ai nuovi modelli di business “as-a-service”, fino alla trasformazione del supporto sul campo grazie all’AI generativa, un confronto ricco di spunti pratici per produttori e operatori del settore che vogliono capire come passare dalla semplice vendita di prodotto alla creazione di valore continuo per i propri clienti.
Buongiorno a tutti, mi chiamo Daniele Delle Case e questo è Expert Talks, il podcast di Things 5 che parla di tecnologia e prodotti intelligenti con gli esperti del settore.
Oggi con noi c’è Paolo Mauri, Global Customer Care Manager in Angelo Po.
Buongiorno a tutti. È un piacere essere qui.
Paolo oggi condividerà con noi la sua visione sull’evoluzione tecnologica nel settore HoReCa. Paolo, ho visto che hai accumulato moltissime esperienze nel tuo passato e mi piacerebbe partire proprio da qui. Ci racconti un po’ chi sei, cosa hai fatto e qual è stato il tuo percorso?
Allora, metto le mani avanti: sono un sociologo. La tecnica e la tecnologia le vivo e le capisco, ma ho sempre un occhio ben fermo sulla parte più umana e sulle relazioni che ci sono in azienda. Tra l’altro sono un sociologo dell’organizzazione. Questa cosa dà un po’ l’impronta a quello che ho fatto e che sto facendo anche in Angelo Po.
La mia carriera lavorativa è ormai piuttosto lunga, non sono esattamente di primo pelo. Sono partito dalla linea di produzione in un’azienda che assemblava e vendeva caldaie e impianti di riscaldamento. Poi sono passato all’assistenza; ho avuto un periodo di transizione nel laboratorio di ricerca, sviluppo e innovazione, dove ho dovuto “masticare” un po’ di tecnica, e poi sono tornato sull’assistenza, che è diventata la parte principale della mia carriera.
Ho fatto anche il product manager per un certo periodo e ho contribuito a strutturare uno degli uffici qualità dell’azienda in cui lavoravo prima di approdare in Angelo Po.
Nel frattempo cerco di restare legato al mondo accademico per quanto riguarda la servitizzazione e, un po’ meno recentemente, la sociologia. Ho provato anche a insegnare servitizzazione in passato e adesso sto di nuovo imparando servitizzazione perché sto partecipando a un master organizzato dall’Università del Piemonte Orientale e dall’Università di Bergamo.
Ok, ho percepito molte cose interessanti nella tua storia. In primo luogo mi piacerebbe capire come è cambiata la tua visione della tecnologia in relazione ai ruoli che hai ricoperto in passato. E poi mi piacerebbe capire la stessa cosa rispetto all’evoluzione del tuo approccio alla tecnologia lungo il tuo percorso in aziende diverse: da multinazionali a PMI più italiane.
Allora, l’approccio alla tecnologia in senso lato è molto cambiato nel mio percorso. Quando lavori in un laboratorio e, magari sei un po’ isolato da quello che è il mondo reale, l’approccio è molto top-down: noi facciamo cose che le persone dovranno accettare a prescindere, perché “noi sappiamo meglio di loro” che cosa serve. C’è anche, bonariamente, un po’ di arroganza: pensiamo di saperla più lunga degli altri.
Quando invece cominci a entrare in contatto con il mercato, con i clienti e con gli intermediari, devi cambiare approccio e capire come iniziare a co-creare le soluzioni con loro. Devi parlarci con le persone.
La tecnologia non è più un fine, ma un mezzo per attivare questo tipo di conversazione e per capire dove sta il valore per tutti: come creo valore, come lo distribuisco e, siccome lavoro per un’azienda, come lo raccolgo, come lo estraggo da ciò che facciamo.
Diciamo che questo è anche più vicino al tuo percorso di studi: viene naturale pensare che la sociologia sia molto allineata con questa visione.
Direi di sì. Devi imparare a portare dentro l’uomo, il cliente e, nel nostro caso, anche tutti gli attori intermedi. Nelle ultime due esperienze che ho avuto, c’è una rete vendita intermediata da agenti e concessionari, e una rete di assistenza anch’essa intermediata.
Oggi in Angelo Po io non ho tecnici diretti: ho un team di supporto di secondo livello, ma i tecnici sul campo, quelli che parlano con i clienti tutti i giorni e incontrano dai quattro agli otto clienti al giorno, non sono tecnici aziendali. Quindi, in qualsiasi percorso evolutivo che metto in pista, devo considerare anche le loro esigenze, perché alla fine sono loro i promotori e i primi adopter di ciò che proponiamo e realizziamo.
Quindi il tuo approccio è sia soddisfare il cliente finale sia soddisfare i partner che devono collaborare con te.
E poi c’era il tema della PMI rispetto alla grande azienda. La mia esperienza nella PMI è ormai un po’ datata, quindi magari le cose oggi sono cambiate – e mi auguro che sia così. All’epoca c’era una visione molto “waterfall”. Nella multinazionale, anche per esigenze di team cross-funzionali e di organizzazione a matrice, ti devi abituare a essere più agile negli approcci e meno sequenziale. Questo si sposa bene con il rimettere il cliente al centro, perché alla fine il processo di servitizzazione serve proprio anche a quello.
E oggi, nel tuo lavoro quotidiano, quali sono le principali sfide che stai affrontando, oltre a quelle che ci hai già descritto?
A parte gestire una rete che non è di tua proprietà – quindi parli con partite IVA che non sono le tue, e hai un grado di controllo che non è totale – una parte importante è la persuasione: “vendere” quello che stai facendo ai tuoi partner diventa fondamentale.
C’è poi una sfida molto forte, nel settore HoReCa ma non solo: la mancanza di tecnici. Molti tecnici esperti stanno uscendo dal mondo del lavoro: persone che da 30-40 anni fanno questo mestiere. Diventa quindi cruciale trovare soluzioni affinché la conoscenza che hanno in testa – e che spesso non è formalizzata – venga trasferita, o almeno messa a disposizione in modo facilmente fruibile per le nuove generazioni di tecnici, che sono più difficili da trovare e hanno anche esigenze di vita diverse rispetto alla nostra generazione.
Sì, effettivamente. Senti, che strategia state mettendo in campo per ovviare a questa mancanza di tecnici e per gestire il passaggio di know-how tra i tecnici “storici” e i tecnici emergenti?
Qui la tecnologia può svolgere un ruolo davvero fondamentale. Il primo punto è riuscire a tracciare tutte le conversazioni che avvengono su tutti i canali: WhatsApp, telefono, e-mail e così via. Il tema è riuscire a estrarre il valore che c’è in queste conversazioni assolutamente disorganizzate e che spesso non hanno un “punto finale” esplicito: lo devi dedurre. Lì la tecnologia diventa essenziale.
Una volta organizzata questa montagna di sapere, devi capire come renderla fruibile in modo facile, smart e nel momento in cui serve. Probabilmente non esiste più il “training in sede” super approfondito una volta all’anno tutti assieme. È più probabile che la situazione reale sia: “Oddio, questa macchina non l’ho mai vista, come la riparo?”.
Ovviamente vanno comunque assicurate le competenze di base: lavorare in sicurezza su elettricità, acqua, nel nostro caso anche gas – spesso tutte e tre insieme – è fondamentale. Ma poi c’è lo specifico di ogni macchina. E ormai è sempre meno probabile che ci sia un centro di assistenza monobrand. Qui entra il tema della “coopetition”: noi e gli altri brand del settore, prima o poi, dovremo collaborare. Immagino un mondo in cui, almeno su alcuni temi, ci si metterà assieme per affrontare queste sfide, perché non sono solo mie: so che per i miei colleghi è esattamente lo stesso.
Diciamo che, da quello che hai raccontato, emergono due temi principali. Il primo è la fruizione di contenuti on demand: nel momento del bisogno devo trovare ciò che mi serve, e questo contenuto deve risolvere un problema con una user experience pensata proprio per quel problema.
Il secondo tema è iniziare a valutare strategie più “di settore” che non di singola azienda, creando sinergie anche con aziende che oggi sono competitor, ma che su alcuni aspetti della vita aziendale possono diventare alleati.
Quello che manca, secondo me, è proprio qualcuno che faccia il primo passo e prenda l’iniziativa. A livello di istituti di formazione professionale potrebbe esserci un ruolo importante. Se penso al mio settore specifico, quello dell’HoReCa, vedo scuole che formano molto bene il personale di sala e di cucina. Ma non vedo percorsi dedicati al “tecnico dell’HoReCa”. Non c’è un percorso strutturato per chi dovrà lavorare sulle apparecchiature. Ci sono corsi per la meccatronica, percorsi legati alla refrigerazione, che è una parte del settore HoReCa, ma non qualcosa che dia una visione a 360°:
- lavorare in sicurezza su elettricità ed elettronica, acqua, gas
- qualche lavorazione meccanica
- gestione del cliente
- gestione del magazzino (perché il furgone con i ricambi è, di fatto, un magazzino da gestire).
Anche qui la tecnologia potrà aiutarci, guardando ad esempio i rapportini di intervento, che non è detto siano sempre elettronici: ci sono ancora paesi europei – anche insospettabili, come la Germania – dove la carta è ancora un “alleato”. Qualcosa che estragga informazioni anche da lì e dia una mano sarebbe sicuramente benvenuto.
Sì, il tema della carta è molto dibattuto, ma secondo me è sempre una questione di user experience: finché la carta richiede meno sforzo rispetto agli strumenti digitali, è chiaro che vincerà la carta. Quando gli strumenti digitali diventeranno talmente semplici che la carta risulterà più faticosa, allora potremo davvero pensare di digitalizzare qualsiasi informazione che entra in azienda e che può portare valore.
Anche perché carta e form online si portano dietro una cosa che a molti tecnici non piace: scrivere. Capita di vedere rapportini con scritto solo: “Problema risolto. Punto.”
Da lì devi riuscire a ricostruire che cosa abbia fatto quella persona, che magari è il migliore tecnico del mondo, ma è un po’ troppo sintetico nel restituire le informazioni.
Possiamo dire che oggi la capacità di trasmettere informazioni in azienda è diventata una competenza chiave anche per un tecnico, perché condividere informazioni significa anche migliorare i prodotti?
Esatto. I tecnici però devono capire che questo è un valore. E non sempre noi siamo bravi a trasmetterglielo, e non sempre loro hanno la sensibilità per apprezzarlo.
Un mondo in cui loro possano dettare a voce quello che hanno fatto, invece di doverlo scrivere, potrebbe già rappresentare un grande passo avanti.
Sì, noi crediamo molto nella dettatura: l’abbiamo già introdotta in alcune delle nostre soluzioni e pensiamo che sia uno strumento che colma un po’ questo gap. Una dettatura che magari viene supportata da una revisione fatta con l’AI, ma comunque più veloce e naturale.
È molto più immediata: la puoi fare mentre stai guidando, oppure in un ambiente complesso – come le cucine– dove non è sempre facile fermarsi, tirare fuori un tablet e mettersi a scrivere.
Hai parlato del ruolo degli istituti di formazione in questa transizione verso la “coopetition”. Secondo te, deve essere per forza un istituto di formazione a fare il primo passo o potrebbe essere anche un’azienda?
Potrebbe sicuramente essere un’azienda, non è necessario che sia un istituto di formazione. Il tema è che, se parliamo di produttori, c’è sempre un po’ la paura di investire nella formazione e poi vedere il tecnico “portato via” da qualcun altro.
Un’azienda esterna che si proponga come system integrator di questa esigenza ci starebbe bene: un aggregatore neutrale. Potrebbe essere una buona via.
Nel tuo ruolo di responsabile globale del customer care, che ruolo ricopre l’IoT?
Noi crediamo che l’IoT debba diventare sempre più fondamentale nella risoluzione dei problemi sul campo. Come si inserisce l’IoT nel tuo lavoro e quali sono le sfide che avete affrontato nell’integrazione dell’IoT sulle vostre macchine?
Parto dalle sfide. Ci stiamo accorgendo che, per motivi tecnologici e di costo, spesso le macchine non vengono connesse.
La prima sfida è rendere il più facile e il meno costoso possibile connettere le macchine e portare i dati sul cloud. Approcci del tipo: “Lo facciamo indipendentemente dalla tua rete, ti metto una SIM dati, però mi devi pagare il traffico”, probabilmente non sono vincenti.
La seconda sfida è avere una base connessa il più ampia possibile: solo allora l’IoT può davvero generare valore. Oggi abbiamo una piattaforma IoT - che tu conosci – molto semplice da usare e intuitiva, e questo è un valore che ci viene riconosciuto.
La sfida successiva è quella di cui parlavamo all’inizio: non deve essere un esercizio tecnico o tecnologico fine a sé stesso, ma un esercizio di valore per il cliente. Solo così verrà adottato. Finché facciamo cose perché “pensiamo di saperne di più”, probabilmente arriviamo solo fino a un certo punto.
Nel nostro caso stiamo lavorando per evolvere la piattaforma IoT e portare valore sia al cliente finale sia agli intermediari: saranno loro a dover connettere le macchine, convincere il cliente a condividere i dati (o meglio, a renderli disponibili) e presentare per primi i vantaggi di questi servizi.
Anche noi siamo molto allineati con questa visione. Siamo convinti che l’investimento nell’IoT – nella pura connettività – debba essere visto quasi come una commodity, un abilitatore per generare dati che poi devono essere valorizzati e fruiti da applicazioni che risolvono problemi concreti all’utente finale. L’IoT di per sé non risolve problemi se non hai funzionalità che usano i dati per risolverli davvero.
Vedere l’investimento nella sola connettività come un investimento con ritorno diretto è difficile. Se invece lo si inserisce in una strategia più ampia, in cui la connettività è legata a servizi che posso vendere, allora l’investimento assume un senso completamente diverso. Spesso vediamo che molte aziende fanno ancora fatica a comprendere quello che si può generare dai dati, ed è per questo che spesso chiedono a noi di aiutarle a trovare soluzioni per valorizzare il dato.
Esatto. Questo è un punto fondamentale per quelle aziende che si propongono come integratori: portano l’esperienza che evita di reinventare la ruota per la milionesima volta.
Sono processi lunghi e costosi, anche banalmente in termini economici: devi intervistare i clienti, capire qual è la media, se sono rappresentativi del tuo parco, organizzare focus group, sviluppare, rifare, iterare all’infinito. Il “loop & relaunch” ci sarà e deve esserci, ma come evoluzione di una base solida che hai già proposto e sai che funziona. Questo ti permette anche di essere più veloce.
E poi c’è il tema della contaminazione tra settori: magari scopri che uno use case fatto per macchine di lavorazione del legno è perfetto anche per una lavastoviglie a traino in cucina. Il ruolo di queste aziende diventerà sempre più importante.
Sì, il concetto di cross-contaminazione dovrebbe far parte del bagaglio di qualsiasi azienda che porta tecnologia in altre aziende. La storia è piena di casi di successo nati così.
Se dovessi valutare in termini di ritorno dell’investimento un progetto di pura connettività, quali sono, secondo te, i KPI che le aziende dovrebbero monitorare per valutarne il ritorno? Se ci sono.
È una domanda assolutamente interessante, e sulla quale stiamo ancora lavorando.
I KPI “banali” sono quelli a cui arriviamo tutti: numero di macchine connesse, numero di clienti che hanno sottoscritto un contratto, numero di accessi, utilizzo di una certa funzione che tu ritieni geniale (e magari poi non lo è). Poi bisogna andare più in profondità su cosa dicono di te i clienti: è lì che capisci davvero il valore. Da sociologo sono molto contento che siamo arrivati qui, ma è anche la parte più difficile: devi entrare nella psicologia del cliente. Quando ti dà un feedback, devi interpretare che cosa ti sta dicendo davvero:
- si lamenta di una funzione perché non fa quello che vuole?
- o perché in realtà vorrebbe un’altra funzione?
Questo è difficile da catturare con KPI sintetici.
Probabilmente, con sistemi che analizzano la semantica del linguaggio, si potrà arrivare a quantificare anche questi aspetti.
Si, e poi, ovviamente, ci sono gli aspetti monetari: quanto riesci a portare a casa?
Nel mio settore credo che, guardando la sola connettività in termini puramente monetari, saremo sempre “in perdita”. Non penso che riusciremo mai a coprire completamente l’investimento solo con la connettività.
Volevo chiederti qualcosa proprio sulla connettività come base per generare valore. Io sono un forte sostenitore dello user behavior sui prodotti fisici: nel mondo web è prassi comune, sui prodotti fisici/digitali lo è molto meno. Quindi: tracciare il comportamento dell’utente con i prodotti. Secondo me, l’IoT dovrebbe essere ciò che colma questo gap con il mondo digitale tradizionale. Qual è il tuo punto di vista su questo aspetto e come questi dati possono incidere sul miglioramento del prodotto?
Tantissimo. Sondare come l’utilizzatore finale usa la macchina diventa importantissimo anche per evitare di dare cose troppo complesse o poco utilizzate. Nel mio settore, chi compra l’apparecchiatura non è quasi mai chi la usa. E chi guarda i dati da un PC non è necessariamente la persona che sta davanti alla macchina e tenta di far partire un programma o di utilizzarla. Quindi devi capire l’interazione con la macchina in base a chi hai davanti. Già solo sapere se è lo chef, il sous-chef o l’operatore che fa la preparazione cambia molto. In base a questo devi dare a ciascuno quello che gli serve, nel modo più semplice possibile: questo è un vantaggio competitivo enorme.
Serve anche per capire quali funzionalità hanno senso per il cliente. Nei laboratori di ricerca e sviluppo si fanno molte ipotesi, ma poi ciò che serve davvero è, magari, il 20-30% delle funzioni.
Dalla nostra esperienza è circa il 20%, ma non è mai lo stesso 20% per tutti. Quindi devi aprire il ventaglio di possibilità, permettere di scegliere e testare, e poi idealmente ogni cliente si tiene il suo 20% che gli serve.
È molto simile a quello che succede sul web.
E anche sulle auto di ultima generazione: hai un pannello che fa di tutto, ma alla fine usi sempre quattro funzioni. Vuoi che funzionino bene, che siano a portata di mano e che quasi si propongano da sole, senza che tu debba attivarle manualmente.
Qui entra il tema della proattività: su cui un po’ tutti stanno lavorando.
E poi c’è l’interazione con un bagaglio di conoscenza acquisita da altri clienti e messa a disposizione dall’azienda. Magari cambio menù e il mio operatore non sa esattamente come fare una certa cosa: sarebbe bello che potesse chiedere direttamente alla macchina – o tramite un’interfaccia semplice – come fare.
Questo è un tema a noi molto caro: ci stiamo lavorando, avviando progetti in questa direzione per aiutare l’utente a trovare più facilmente ciò di cui ha bisogno, usando anche AI generativa e sistemi proattivi. È molto in linea con la nostra visione aziendale.
Prima hai introdotto il tema della servitizzazione. Sappiamo che è qualcosa che valorizzerà moltissimo anche l’IoT: i dati sono la base per la vendita di qualsiasi servizio.
Che cos’è, innanzitutto, la servitizzazione secondo la tua visione? E quali sono le motivazioni per cui un’azienda dovrebbe servitizzare e il percorso che un’azienda dovrebbe seguire per farlo?
Tre domande molto ampie! Partiamo da cos’è la servitizzazione.
Io la interpreto come un processo di trasformazione delle aziende manifatturiere: si parte da un’azienda che, su un continuum, offre solo il prodotto – “ti vendo il prodotto, ciao, non ci vediamo più” – fino ad arrivare a un’azienda in cui il prodotto è il “sottostante”: continua a esserci, ma in realtà ti sto offrendo un pacchetto completo di soluzioni ai tuoi problemi e ai tuoi bisogni. In mezzo ci sono vari step intermedi che, a mio parere, vanno affrontati in ordine.
Se pensiamo al modello di Tim Baines, con i vari scalini della servitizzazione, ritengo che vadano percorsi – magari anche velocemente – ma in quell’ordine. Se salti passaggi, rischi di costruire una piramide appoggiata sulla punta. Costruire una base solida, e poi passare allo step successivo, è fondamentale anche per imparare. Una delle sfide della servitizzazione è che alcune strade potrebbero rivelarsi chiuse e devi tornare indietro. Lì serve un forte sostegno dal management: deve darti la libertà di sperimentare su strade che magari all’inizio sembrano rischiose, ma anche la serenità di poter tornare indietro senza che alla prima o seconda esperienza negativa si decida di “deservitizzare”.
Il rischio grosso è proprio quello: qualche esperienza non va come previsto e si conclude che “non funziona”, quindi si abbandona il percorso. In realtà la servitizzazione, in vari settori, è molto avanzata – soprattutto nei settori di processo. Nel nostro settore non abbiamo ancora fatto fino in fondo il passaggio che riconosce alcune macchine come “di processo”, anche se lo sono: quindi dovrebbe essere più facile. Bisogna però sensibilizzare chi deve acquistare quei servizi, che spesso non è ancora abituato a vedere il valore nel tempo di un processo di questo tipo.
Mi immagino, per esempio, nel settore HoReCa, un restaurant manager che, invece di comprare un forno “one shot”, lo acquista in modalità “as-a-service”, pagando un fee mensile. Questo, secondo me, semplificherebbe molto la gestione finanziaria di un punto vendita: si passa dal concetto di investimento al concetto di utilizzo. Permette maggiore scalabilità e consente alle aziende produttrici di avere margini più alti nel lungo termine. È un percorso virtuoso per tutti gli attori dell’ecosistema. Penso che tutte le aziende, nel medio-lungo periodo, dovrebbero approcciare questo modello.
Assolutamente sì. C’è però un piccolo “però”: per l’azienda che non ti ha più venduto il forno “one shot” – con un ricavo subito misurabile – serve un cambio di mentalità. Bisogna abituarsi a pensare a un ricavo più piccolo ma ricorrente nel tempo, e alla gestione dell’asset che rimane di tua proprietà o di un partner finanziario. Questo è sicuramente un tema cruciale quando si parla di trasformazione verso la servitizzazione.
Sto vedendo che iniziano a comparire modelli finanziari più creativi, basati proprio sull’asset fisico. Sono sviluppi interessanti: ad esempio, potremmo vedere mini-bond basati sugli asset servitizzati. È un tema molto interessante, che meriterebbe un approfondimento a parte.
Prima parlavi di “passi giusti” e di una base su cui costruire. Non si può fare un percorso improvvisato verso la servitizzazione. Quali sono, secondo te, i passi giusti per servitizzare un prodotto?
In teoria è tutto semplicissimo. Nella pratica, un po’ meno. Parti dal prodotto:
- diventi bravo a fornire ricambi
- metti in piedi una rete di assistenza
- diventi sempre un po’ più proattivo
- cominci a vendere contratti di manutenzione programmata
- offri estensioni di garanzia
Fin qui, stai ancora parlando di un asset con “attaccati” dei servizi. Tim Baines li chiama “servizi intermedi”. Il salto quantico arriva quando non vendi più l’asset in sé, ma vendi l’outcome: il risultato. Parli di un processo andato a buon fine, e vieni retribuito in base a quanto sei stato bravo a portare a termine quel processo. Non ti pagano più per il forno, ma per il risultato ottenuto con il forno. Però non puoi arrivare lì senza aver fatto alcune esperienze intermedie. È importante anche per capire come reagisce l’organizzazione e come devi cambiare internamente per parlare di queste cose in modo corretto.
Si dice spesso – semplificando – che un venditore di prodotto non è un venditore di servizio. Non è sempre vero, ma sicuramente i KPI con cui misuriamo i venditori dovranno cambiare: non sarà più semplicemente “quanto hai fatturato”, ma “quanto sei stato di successo nel tempo”.
E poi c’è il tema della struttura commerciale e dei partner: distributori, rivenditori, centri assistenza. Vanno coinvolti in modo diverso.
Trovare la soluzione per coinvolgere la filiera è complesso. E una volta che hai coinvolto la filiera verso il mercato, devi coinvolgere anche quella verso i fornitori: alcuni sono già preparati per affrontare questi temi, altri non ancora – e non su tutti i componenti critici della macchina.
Se dovessi dare tre consigli chiave a un’azienda che non ha ancora fatto nulla in ambito servitizzazione ma vuole iniziare, quali sarebbero?
Direi questi tre:
- Iniziare. Buttare il cuore oltre l’ostacolo e cominciare, magari in piccolo. È un’occasione di apprendimento per capire se, come azienda, sei pronto o cosa devi fare per esserlo.
- Assicurarsi che il management sia a bordo. Senza sponsorship dall’alto, il percorso non regge.
- Continuare a crederci. Qualcosa andrà storto, prima o poi. Ci sarà quel contratto che porterà una perdita invece che un guadagno, ma non importa: si lavora sul totale e sul lungo periodo.
Decidere e cominciare è il primo passo. Il più importante.
Adesso vorrei introdurre un altro tema che mi è molto caro e che negli ultimi 2-3 anni sta cambiando parecchio il mondo: l’AI generativa. Sappiamo che l’AI generativa sta introducendo cambiamenti in tutti i settori. In alcuni ambiti è già diventata la base per creare valore e aumentare la produttività delle persone. Secondo te, qual è o quale sarà, l’impatto dell’AI generativa nel vostro ambito?
In senso ampio, l’impatto sarà molto alto. Se pensiamo al settore HoReCa globale, la possibilità di supportare chi fruisce di un servizio – ad esempio un cliente di un ristorante – tramite l’AI è già un passo avanti importante. Poi c’è tutta la parte di gestione delle apparecchiature e dei processi delle aziende:
- l’azienda che ha installato le apparecchiature
- i centri di assistenza che tengono in piedi le macchine
- chi fornisce i prodotti e i servizi collegati.
In ognuno di questi punti ci sono molteplici interazioni che possono essere gestite in modo intelligente dall’AI. Ciascuno di questi attori può beneficiarne: per semplificare, per dare più immediatezza, per lavorare sull’uptime delle macchine (per la parte tecnica).
Un caso d’uso interessante: ho un guasto su una certa apparecchiatura, una parte della macchina non funziona più. Come posso comunque ottenere un risultato simile, pur non identico, sfruttando ciò che è rimasto funzionante? È una sorta di “emergency mode” che ti consente di continuare a erogare il servizio, anche se non a pieno regime, invece di fermarti completamente.
Molto interessante questo caso d’uso. Te ne vengono in mente altri, sia nel settore HoReCa sia nella gestione per i vostri clienti – quindi ristoratori, chef, ecc.?
Assolutamente sì. Uno è quello che citavamo prima: n macchine che lavorano tutte su qualcosa e che possono dare suggerimenti all’operatore su “fallo così” o “prova quest’altra modalità”. Magari la persona non sa esattamente come fare una preparazione e vuole trovare il modo migliore per farla: lì l’AI può intervenire con suggerimenti contestuali.
C’è poi la parte di self-help: il problema che si risolve il più velocemente possibile dalla prima persona che lo ha visto, senza dover sempre scalare. Anche questo è un aiuto enorme.
Il problema più grosso, quando penso a un ristoratore sulla costa in piena stagione che non riesce a fare servizio, è proprio l’interruzione delle operazioni: diamogli una mano a continuare a servire i clienti e a generare redditività. Poi il tecnico andrà a sistemare la macchina al 100%, ma intanto abbiamo evitato un disastro. Ripenso agli anni ’90, quando i tecnici giravano con mezzo metro cubo di carta nel furgone. Oggi devono saper lavorare su macchine di chiunque, con cataloghi molto ampi in orizzontale (tanti modelli) e anche all’indietro (tanti anni di storico).
Il giovane tecnico appena uscito da scuola, per quanto volenteroso, come fa a conoscere tutto? Non ce la farà mai. Ce ne rendiamo conto anche noi. Allora la domanda è: come posso aiutarlo? Come può chiedermi qualcosa – magari a voce – e ottenere subito indicazioni per rimettere in piedi la macchina? Magari non sarà perfetta, ma sarà funzionante. Poi si torna con i pezzi e si fa il lavoro definitivo.
Qui torniamo un po’ al concetto iniziale: condivisione delle esperienze e dei contenuti. Serve creare una knowledge base aziendale che raccolga: interazioni precedenti, manuali e dialoghi di assistenza con utenti e operatori.
Questa knowledge base deve diventare un patrimonio su cui costruire strumenti che forniscano supporto on demand, come dicevamo.
Un altro caso d’uso che vediamo spesso riguarda le chiamate di assistenza su macchine non connesse. Il tecnico chiede: “Come stavi usando la macchina?” e il cliente risponde: “Era accesa”. Risultato: zero informazioni.
Questo è un tema IoT e user behaviour.
Se c’è l’IoT va bene, ma se non c’è come aiuto il mio cliente?
Dal mio punto di vista, ma macchina già genera log e dati. Nei casi in cui non c’è IoT permanente, ha molto senso quello che dicevi tu: una connettività on demand, un’applicazione che si connette alla macchina via Bluetooth o simili e permette di recuperare gli ultimi dati – non tutta la storia, ma abbastanza per fare diagnostica. È una via intermedia tra IoT tradizionale, con la macchina sempre connessa e un IoT “entry level” che, in molti casi, può risolvere questo tipo di problema. Il punto chiave, in ogni caso, è sapere cosa è successo dentro la macchina e capire come l’utente ha agito per generare quel problema. Questi dati, secondo me, sono fondamentali per le macchine del futuro e per garantire anche quella proattività di cui parlavamo.
Restando nell’ambito del customer support, hai già introdotto alcuni casi d’uso dell’AI generativa nell’HoReCa. Che tipo di valore ulteriore, rispetto a quello che hai già descritto, può portare l’AI generativa nel fornire supporto ai clienti? E come può impattare la percezione del brand da parte degli utilizzatori finali?
È una tematica molto interessante, su cui stiamo iniziando a muoverci. Dal punto di vista del brand, l’effetto è questo: la macchina diventa trasparente per l’utente. Io faccio in modo che l’utente si concentri sul suo vero lavoro. Il lavoro dell’utente non è “usare la mia macchina”, ma servire un pasto a qualcuno. Più la macchina è semplice, meno è problematica, più è “invisibile” nelle sue complessità tecniche, meglio è. Tutto il supporto che l’apparecchiatura può dare al cliente per agevolarlo nel portare a termine il processo è il punto in cui un brand si differenzierà dall’altro.
Quanto al fatto di parlare con una “macchina” e non con un essere umano: oggi c’è ancora il preconcetto che sia un’interazione alienante. C’è una migliore percezione del brand o la spersonalizza?
Migliora assolutamente. C'è il preconcetto che sia un'interazione alienante, ma se affrontata con intelligenza diventerà fondamentale. Alcune esperienze con risponditori telefonici e bot mal progettati non aiutano. Se viene utilizzato con intelligenza dall’utente e le aziende che ci lavorano hanno a cuore l’interazione, allora diventa fondamentale. Il brand che riuscirà a essere più friendly vincerà.
È anche un discorso generazionale: i nativi digitali accetteranno più facilmente queste interazioni e le sapranno usare meglio. Il fatto positivo è che lo strumento intelligente si adatta e cerca di agevolare l'interazione.
Proprio in termini di agevolare l’interazione: ti immagini un’integrazione dell’AI generativa non solo per fornire supporto “esterno”, ma integrata direttamente nella macchina, trasformando la macchina in un assistente digitale?
Probabilmente sì, ci sarà qualcosa del genere. Non so se sarà una funzione integrata fisicamente nella macchina o qualcosa di esterno che integra tutte le macchine. Penso a una cucina: sarebbe bello che tutte le cucine del mondo avessero solo prodotti Angelo Po, ma la probabilità non è altissima. È più probabile che il centro della cucina – oggi spesso il forno – diventi l’interfaccia principale e magari il tuo assistente digitale per le macchine che conosce direttamente. Un sistema esterno può conoscere anche altre macchine, a meno che non si attivino quei processi di coopetition per cui il forno di Angelo Po riconosce la friggitrice di un altro produttore o il blast chiller di un terzo.
Le cucine non si rifanno sempre da zero: spesso si cambiano pezzi, uno alla volta. Diventa difficile avere un solo brand in cucina. Vedo più probabile un’esperienza esterna che dialoga con l’elettronica delle macchine, con alcune interazioni specifiche che però ha senso mantenere direttamente davanti alla macchina.
Molto interessante questo punto di vista. Se parliamo invece di futuro, per Angelo Po e più in generale per il vostro settore: quali sono le tendenze chiave che intravedi nell’evoluzione tecnologica del prodotto? E che ruolo dovrebbe avere il costruttore all’interno di queste tendenze?
Una tendenza chiave è l’automazione dei processi e la volontà di raccogliere tutte le apparecchiature in un unico punto di controllo, per capirle e farle lavorare bene assieme. Questo, oltre che in ottica di automazione, è importante per il risparmio energetico e il miglior utilizzo e la conservazione degli ingredienti. Queste tendenze incrociano i temi della sostenibilità, della “despecializzazione” e, in alcuni casi, della deprofessionalizzazione di chi lavora in cucina.
Dal punto di vista del produttore, l’obiettivo è aiutarti ad avere un processo il più possibile privo di errori e il più indipendente possibile dall’operatore che hai in quel momento.
Questo vale per un’ampia fascia di clienti. Poi ci sarà sempre lo chef stellato, artista della cucina, con esigenze diverse. Capire quanti saranno gli chef stellati rispetto ai quick service restaurant è fondamentale per orientare lo sviluppo prodotto. Probabilmente la soluzione vincente è sviluppare sistemi che possano andare bene per tutti, ma abbastanza intelligenti da adeguarsi automaticamente a chi hai davanti.
Il ruolo del costruttore, in tutto questo, è un ruolo di ascolto attivo del mercato e di adeguamento costante.
Anche la formazione diventerà sempre più importante. Vediamo già player che arrivano non dal mondo della ristorazione ma dall’IT, che aprono catene di ristorazione. Ne ho incrociate un paio negli Stati Uniti e suppongo che presto arriveranno anche in Europa. Forse saranno loro a insegnare a noi come usare i dati.
Torna ancora il concetto di cross-contaminazione: IT e HoReCa che si fondono.
La “robotica” e l’HoReCa, con bracci robotici che svolgono funzioni oggi svolte da umani. In alcune parti dell’HoReCa, un risultato super ripetibile e costante è proprio la proposta di valore di quel tipo di ristorazione: lì la macchina può essere perfetta.
Mi immagino che cambierà anche la tipologia di prodotto per farlo lavorare con un braccio robotico: un forno tradizionale probabilmente non è ottimizzato per quel tipo di utilizzo.
Non è ottimizzato, ma già oggi un braccio robotico può fare cose interessanti.
Non sveliamo troppo.
Teniamoci qualche segreto per la prossima puntata.
A proposito di prossima puntata, io volevo ringraziarti per la tua disponibilità: è stata una chiacchierata molto piacevole e abbiamo approfondito diversi argomenti. Ci vediamo presto, a questo punto.
Ci vediamo assolutamente presto. Grazie, Paolo – anzi, grazie a voi. Ciao, a presto.

